Il caso San Raffaele e le vulnerabilità del SSN. Una riflessione necessaria anche per l’Emergenza-Urgenza - Editoriale del Presidente AIES
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- 5 giorni fa
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Il caso del San Raffaele, così come ricostruito da diverse testate nazionali, rappresenta molto più di un episodio fortemente critico interno a un ospedale. È un indicatore di sistema, un segnale chiaro di quanto le fragilità organizzative si manifestino con troppa facilità e particolare virulenza proprio nelle aree ad alta intensità assistenziale. In questo senso l’emergenza-urgenza ospedaliera e il sistema territoriale 118/112 non possono ritenersi al sicuro.
Ciò che emerge dalle ricostruzioni giornalistiche – barriere comunicative, gestione impropria delle terapie, mancato inserimento professionale, utilizzo di personale esternalizzato in reparti complessi – non costituisce solo una deviazione da quelle che universalmente sono riconosciute come buone pratiche: rappresenta la frattura di quegli elementi strutturali che permettono ai sistemi sanitari di funzionare in condizioni di sicurezza. Quando questi presidi saltano, l’intero sistema diventa vulnerabile.
Anche nell’area dell’emergenza la precisione non è un optional ma una condizione imprescindibile. Le decisioni non sono mai isolate: si inseriscono in flussi di assistenza altamente coordinati, dove la comunicazione tra professionisti è determinante quanto, e forse più, della tecnica.
È proprio in questo punto che la vicenda del San Raffaele si collega in modo inequivocabile all’area dell’emergenza urgenza: la lingua e la comprensione delle informazioni di handover, non sono elementi accessori, ma veri e propri determinanti di sicurezza clinica. In assenza di padronanza linguistica adeguata, la lettura di una prescrizione terapeutica, la gestione di una NIV, l’interpretazione di un monitor, o anche solo la banale interazione tra medico di guardia e personale infermieristico, possono generare errori con impatto immediato e potenzialmente grave.
Analogamente, l’assenza di un percorso di inserimento professionale strutturato è incompatibile con qualsiasi area critica. L’emergenza – sia nei DEA che nel pre-ospedaliero – richiede un periodo minimo di supervisione reale, di valutazione progressiva delle competenze, di integrazione operativa con il team. Siamo in un contesto in cui l’affiancamento non è solo un atto formativo, ma un meccanismo di controllo del rischio: rappresenta il filtro che impedisce che competenze non ancora consolidate si trasformino in eventi avversi.
L’utilizzo crescente di personale esternalizzato, come nel caso di Milano, o anche solo di personale neo-assunto o neo-assegnato, senza una valutazione approfondita e continua delle competenze, introduce un ulteriore elemento di criticità. In emergenza, in particolare, non è sufficiente avere operatori “presenti”: è necessario che questi siano pienamente competenti, integrati nei processi clinici, capaci di aderire con sicurezza alle procedure conoscendone e riconoscendone opportunità e limiti, consapevoli del proprio ruolo nei percorsi tempo-dipendenti. Ogni deviazione da questi standard produce un aumento prevedibile del rischio sistemico. La sicurezza non si improvvisa e non si appalta.
La vicenda richiama anche alla responsabilità professionale individuale e di équipe. I Codici Deontologici sono espliciti: ogni professionista deve vigilare, segnalare, tutelare colleghi e pazienti e rifiutarsi di svolgere attività per le quali non possiede competenze adeguate. Nell’emergenza questo principio assume un peso ancora maggiore. Non esistono margini per l’improvvisazione: dichiarare di non essere pronti a svolgere un compito non è debolezza, ma una forma avanzata di tutela della sicurezza. Accogliere questo riconoscimento, da parte di chi dirige e coordina, non è una opzione ma un dovere professionale.
Il caso del San Raffaele ci obbliga a riconoscere che anche l’area dell’emergenza urgenza vive oggi le stesse fragilità emerse in quel reparto: turnover elevato, ricorso a personale non adeguatamente formato, sovraccarico organizzativo, competenze date per scontate e non certificate propriamente e una crescente distanza tra ciò che la normativa e la letteratura scientifica richiedono e ciò che i sistemi sanitari riescono realmente a garantire.
Il caso in questione, questo vale per l’EU più che per ogni altro settore, dimostra che non basta “mettere qualcuno in turno”: serve un sistema che selezioni, formi, accompagni, valuti e sostenga. Senza questi elementi, ogni struttura rischia di replicare condizioni simili a quelle denunciate al San Raffaele.
AIES considera questa vicenda un’occasione – amara, ma necessaria – per ribadire che la sicurezza delle cure è indissolubilmente legata alla qualità e al riconoscimento delle competenze dei professionisti.
È necessario rafforzare i percorsi di formazione e affiancamento, (ri)definire e rispettare standard minimi per l’accesso a quest’area, garantire un reclutamento basato sulle competenze e non sulla mera, pure se necessaria, copertura dei turni. Farlo sostenendo una cultura organizzativa orientata alla responsabilità e non alla sola produttività.
Nell’emergenza, ancora più che in altri setting, l’unico parametro accettabile è la sicurezza. Quando questa non è garantita, non è il singolo professionista a essere in difficoltà: è il sistema a fallire. E' necessario vigilare in maniera proattiva, per evitare di vedere casi analoghi a quello accaduto al San Raffaele in qualche pronto soccorso o sistema di emergenza territoriale del Paese.
Dr. Roberto Romano, RN, MSN
Presidente AIES, Accademia Italiana Emergenza Sanitaria






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